Comunicato stampa

Vita famigliare di coppia gay negata, Italia condannata a Strasburgo

I ricorrenti Taddeucci e McCall erano diventati “rifugiati” per amore in Olanda

Il ricorso Taddeucci e McCall c. Italia, ric. n. 51362/09 è stato accolto con sentenza pubblicata in data odierna della Corte europea per i diritti umani. Al partner neozelandese del cittadino italiano fu negato il permesso di soggiorno e la coppia decise a quel punto di trasferirsi definitivamente ad Amsterdam, dove vive tuttora e dove le coppie gay e le coppie conviventi non sono discriminate come famiglia.

Secondo la Corte di Strasburgo, ci è stata violazione dell’art. 14 congiuntamente all’art. 8 CEDU. Come si legge al punto 98, «[l]a Corte ritiene che all’epoca della controversia, decidendo di trattare, ai fini della concessione del permesso di soggiorno per motivi famigliari, le coppie omosessuali allo stesso modo delle coppie eterosessuali che non hanno regolarizzato la loro situazione, lo Stato ha violato il diritto dei ricorrenti di non subire discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale nel godimento dei propri diritti ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione».

La decisione, in francese, è reperibile online sul sito della Corte al seguente indirizzo: http://hudoc.echr.coe.int/fre?i=001-164201

L’avvocato Alexander Schuster è intervenuto nel procedimento quale rappresentante di ECSOL – European Commission on Sexual Orientation Law di cui è il membro per l’Italia, ed era l’unico avvocato italiano coinvolto nella procedura europea. I ricorrenti sono stati rappresentati davanti alla Corte dal prof. Robert Wintemute.

Nel quadro delle proprie attività pro bono, lo studio Schuster ha sviluppato nella propria memoria il dato comparato e mostrato come la tutela della vita famigliare anche nel contesto di conviventi sia un dato su cui si registra un ampio consenso fra tutti gli Stati dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa. È stato anche rilevato come verosimilmente vi sia stato un errore di interpretazione del diritto italiano all’epoca dei giudizi nazionali, in quanto l’Italia era tenuta a considerare in concreto la vita famigliare dei ricorrenti e a motivare nel merito il rifiuto opposto. Tale studio comparato non è stato contestato dal Governo italiano ed è stato utilizzato dalla Corte per dare ragione ai ricorrenti.

L’avv. Schuster dichiara: «Questa coppia di amici sono forse i primi rifugiati all’estero per amore, perché nel loro Paese non potevano vivere come famiglia. La decisione di Strasburgo si colloca nel solco della sentenza Oliari e di altre sentenze che affermano con chiarezza che anche la vita di una coppia omosessuale è vita famigliare e va tutelata al pari di ogni altra. Con la legge sulle unioni civili questa carenza di tutela è stata rimediata, ma la sentenza Taddeucci può assumere rilevanza per tutti quegli Stati europei che ancora non tutelano adeguatamente queste coppie».

 

I fatti e il ricorso

I ricorrenti, Roberto Taddeucci e Douglas McCall, sono cittadini rispettivamente italiano e neozelandese, nati nel 1965 e 1958. Si tratta di una coppia gay che attualmente vive ad Amsterdam. Denunciano una discriminazione in base all’orientamento sessuale.

I signori Taddeucci e McCall risiedevano in Nuova Zelanda, con lo status di una coppia non sposata fino a dicembre 2003, quando hanno deciso di trasferirsi in Italia. Durante il loro primo periodo di residenza in Italia, il signor McCall ha goduto di un permesso di soggiorno temporaneo per studenti. Ha poi chiesto un permesso di soggiorno per motivi familiari. Il 18 ottobre 2004, il Questore di Livorno ha respinto la domanda con la motivazione che i requisiti richiesti dalla legge non erano stati soddisfatti.

I signori Taddeucci e McCall hanno presentato ricorso sulla base del decreto legislativo n. 286 del 1998, insistendo per la concessione di un permesso di soggiorno per motivi familiari. Il 4 luglio 2005 il Tribunale civile di Firenze ha accolto il ricorso, considerando che l’articolo 30 del decreto legislativo n. 286 del 1998 dovrebbe essere interpretato nel senso di considerare il partner dello stesso sesso come un membro della famiglia di un cittadino italiano. Il Ministero degli Interni ha proposto appello.

Con sentenza pronunciata il 12 maggio 2006, la Corte d’appello di Firenze ha accolto l’appello. Questa ha ritenuto che le autorità neozelandesi avessero riconosciuto ai signori Taddeucci e McCall lo status di «partner conviventi non sposati» e non quello di «membri di una stessa famiglia». Secondo la Corte d’appello, l’ordinamento italiano ha attribuito a questi due concetti giuridici una portata e dei significati diversi. La Corte d’appello ha ritenuto che la legge della Nuova Zelanda non fosse compatibile con l’ordine pubblico italiano per il fatto di considerare come conviventi due persone dello stesso sesso e che la legge poteva essere interpretata come attributiva a queste persone della qualità di membri della famiglia al fine di rilasciare loro il permesso di soggiorno.

I signori Taddeucci e McCall hanno proposto ricorso per motivi di diritto in Cassazione. La Suprema Corte ha respinto il loro ricorso, affermando che, ai sensi dell’art. 29 del decreto legislativo n. 286 del 1998, la nozione di “membro della famiglia” include solo il coniuge, figli minori, figli maggiorenni a carico e genitori a carico. Essa ha inoltre dichiarato che la Corte costituzionale aveva escluso la possibilità di estendere ai conviventi la protezione accordata ai membri della famiglia legittima. Infine, essa ha dichiarato che gli articoli 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 12 (diritto di sposarsi) della Convenzione lasciano agli Stati membri un ampio margine di apprezzamento.

Invocando in particolare l’articolo 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’articolo 8 della CEDU, i signori Taddeucci e McCall hanno sostenuto che il rifiuto da parte delle autorità italiane di concedere al sig. McCall un permesso di soggiorno per motivi famigliari costituisse una discriminazione in base al loro orientamento sessuale.

Trento, 30 giugno 2016